3.

Il canto XV del «Paradiso»

Nel Paradiso i fondamentali temi poetici di Dante raggiungono la loro espressione piú alta e profonda, la loro forma superiore ed epica, cosí come la sua arte, la sua parola poetica, le sue capacità costruttive e sinfoniche vi toccano il vertice delle loro possibilità. In questo regno di una tensione superiore che pur raggiunge la sua espressione compiuta e conclusa (la sua misura, non la smisuranza di Jacopone e il silenzio dei mistici), come i personaggi divengono piuttosto nuclei lirici, voci in cui la forza drammatica-plastica dell’Inferno si tramuta in caratterizzazioni piú intime, non bisognose quasi di segni fisici, di rappresentazioni esterne, e vivono intensamente nella evocazione delle loro storie esemplari e assolute, cosí i motivi piú validi dell’animo e degli ideali danteschi raggiungono la loro espressione piú sintetica, definitiva, purificata dai loro aspetti piú contingenti e passionali in una forza di rappresentazione piú intima e piú serena, di fondamentale tono epico: evocazione e rappresentazione, non vaghe larve in un cielo di evasione mistica e ascetica che abolisca ogni aspetto e ricordo della terra o li riporti solo nelle immagini di paragone (secondo la dubbia affermazione desanctisiana e crociana), le quali poi viceversa son sempre intonati a questa dimensione speciale di una realtà superiore in cui quella mondana ritorna sublimata e piú pura con i suoi affetti, le sue aspirazioni fondamentali e con la fede spirituale e poetica di chi, come Dante, vuole una renovatio, una riforma del «mondo» e non un suo abbandono sdegnoso o elegiaco.

Cosí avviene particolarmente per il tema civile e cittadino, per il tema della concreta patria terrena, Firenze, che, dopo le frequenti e frammentarie apparizioni nelle altre cantiche e specie nell’Inferno, in toni di invettiva, di nostalgia appassionata, in forme a volte di ira partigiana e piú strettamente municipale, ritorna nel Paradiso e vi chiarisce definitivamente il suo rapporto con Dante, con la sua missione di poeta-profeta, con il significato del suo esilio, con il suo dolore di esule (su cui tanto giustamente insisté il Momigliano), con la sua fede nella stessa soluzione positiva e trionfale della sua vicenda terrena che egli vede poi nel canto XXV glorificata dalla corona poetica proprio nel «bello ovile» dove egli «dormí agnello», sul «fonte» del suo «battesimo». Nel Paradiso questa sua fede si precisa integralmente, il significato della sua vita e della sua opera si completa e si illumina e mentre le parziali, oscure profezie sul suo esilio si spiegano nella parola di Cacciaguida, pèrdono il loro carattere minaccioso e acquistano una luce di suprema certezza personale storica e divina, pur nel tormento di una vocazione di martirio inteso, ma ormai chiarito anch’esso nella sua superiore necessità, interamente rappresentato e non piú solo ansiosamente sofferto come opprimente incubo, cosí coerentemente le allusioni inquietanti alla sua missione e al valore del suo viaggio ultraterreno, paragonato dal poeta all’inizio dell’Inferno con il viaggio di Enea e Paolo solo per mostrare la propria inadeguatezza alla funzione alta di quelle gloriose e sacre personalità, si cambiano nella nobilitazione e santificazione dei paragoni, espliciti o impliciti (autorizzati dalla voce del beato che vede nella mente di Dio), del poeta con Enea, con Cesare, e persino con Gesú. E ugualmente l’immagine di Firenze, prima tormentosa e passionale, si sdoppia nel contrasto di quella di un presente corrotto, e giudicato piú con superiore e severo distacco che con iroso accanimento, e di quella di un passato e di uno sperato futuro di pace, nella cui rappresentazione epica e mitica (e assicurata in una storica realtà dalla testimonianza di uno dei suoi cittadini) le note piú segrete dell’animo di Dante, la sua ricca, delicata e virile vita di sentimenti familiari e cittadini, la malinconia dell’esule privo di città e di casa, incerto della sua tomba, vibrano piú intimamente e, invece di espandersi in forme di struggente elegia o di idillio vagheggiato senza speranza, si traducono in un quadro poetico di straordinaria perfezione classica. E autobiografia si supera in assoluta poesia mercé l’essenziale mediazione della voce di Cacciaguida, voce-personaggio, vero e intero personaggio di Paradiso, tutto costruito su note intime, su coerenti componenti di qualità e di accenti: beato, cittadino della Firenze antica, morto combattendo per la fede, paterno vegliardo, ricco di una tensione di affetto e dotato di una superiore misura, che quella contiene e potenzia fino alla mitizzazione solenne, semplice e commossa della Firenze «sobria e pudica» in cui quella voce fonde piú interamente gli elementi epici e sacri, la fermezza testimoniale e la vibrazione appassionata, che si erano venuti sviluppando nella elaborazione lenta e progressiva del personaggio e nella compatta integrale precisazione della scena e del colloquio con Dante.

Quella rappresentazione della Firenze antica è certo il momento piú alto, la mèta suprema del canto XV, ma errerebbe chi volesse isolarlo antologicamente come lirica a sé, perché esso vive e si giustifica nella complessa unità dei canti di Cacciaguida e piú immediatamente nel suo accordo con tutta la prima parte del canto XV, con il finale epico-storico della vicenda di Cacciaguida e della sua morte in battaglia, e presuppone insieme le particolari condizioni poetiche del Paradiso in cui solamente una simile rappresentazione poteva raggiungere la sua limpida potenza, la sua essenzialità e semplicità. Come d’altra parte tutti i tre canti, posti non a caso nel centro della terza cantica, in una lunga sosta dell’ascesa paradisiaca (ma quell’ascesa continua nell’intimo, nel perfezionamento di quel grande tema e degli elementi danteschi che esso implica), non costituiscono, come spesso è stato detto, un semplice inserimento parentetico di temi mondani e privati nella diversa poesia del Paradiso, ma una sublimazione e una sintetica chiarificazione di questi nelle condizioni di quel regno e di quella poesia, la quale poi, dopo questo momento, in cui lo stesso significato dell’opera e della vita di Dante è definitivamente chiarito in termini assoluti, potrà riespandersi con nuovo slancio nella rappresentazione piú diretta dell’ineffabile, dei misteri della fede, delle visioni paradisiache, senza con ciò perdere il centrale riferimento alla missione di Dante e a questo sviluppo di un tema fondamentale della Commedia, che qui, rivisto nel suo aspetto piú alto ed intero, si ricollega chiaramente anche alla sua vita nelle altre cantiche.

Valore centrale dei tre canti nel Paradiso, valore di potente equilibrio nel suo svolgimento, nell’accordo di uno sviluppo superiore del motivo civile-municipale e di quello della missione di Dante (i canti centrali del Paradiso rispondono ai canti centrali dell’Inferno dedicati a Firenze, al dialogo di Dante con Brunetto e con i fiorentini che «a ben far poser gl’ingegni», nonché ai canti purgatoriali di Guido del Duca e di Marco Lombardo, dell’esaltazione di un passato di valore e cortesia) proprio nel cielo di Marte e nel segno della croce dei combattenti per la fede: quel cielo di Marte di cui Dante nel Convivio (II, XIII, 20) sottolineò il significato simbolico di centralità armonica, perché «annumerando [...], cieli mobili esso cielo di Marte è lo quinto, esso è lo mezzo di tutti», mentre, accennando al suo significato di annunciatore di rivolgimenti politici e all’apparizione, in figura di una croce, di una «grande quantità di vapori dello cielo di Marte in Fiorenza nel principio della sua destruzione», Dante sembra in quel passo alludere ad una relazione presente anche nella genesi sentimentale e fantastica di questi canti, fra la centralità del cielo di Marte, la figura della croce dei combattenti per la fede, il contrasto tra la Firenze decaduta e la Firenze ideale del passato e della sua speranza.

Il canto XV vive cosí in questo complesso nodo di rapporti tematici, vive come introduzione agli altri due canti, a cui fornisce la base necessaria di slancio, il completamento della scena, la elaborazione della voce di Cacciaguida e dell’immagine della Firenze antica, ma vive anzitutto in se stesso, nella sua forte unità particolare (anche se intensificata proprio da una tensione che attende ancora ulteriore sviluppo, folta di temi nascenti) e nel rapporto necessario fra la prima parte e il mito poetico altissimo che ne scaturisce al sommo e ne assorbe e trasvalora l’intensa accensione paradisiaca e affettiva, essenziale ad alimentare la superiore purezza in un passaggio di gradi di approfondimento lirico, in uno svolgersi della poesia piú alta da un impeto spesso piú lirico-eloquente, ma mai privo di congeniali componenti schiettamente poetiche, mai riducibile a puro momento di struttura esternamente narrativa.

Tutto il canto XV vive in una sua unità dinamica e all’interesse narrativo sempre crescente nel continuo segno di una attesa e di uno svolgimento piú alto, allo sviluppo della scena celeste in cui si giustifica il tono altissimo del dialogo, corrisponde integralmente un continuo arricchimento di motivi e di toni sentimentali e poetici sempre piú interni e lirici, in una progressione e articolazione di parti tutte ascendenti che conducono sempre piú all’interno, ad una visione-evocazione piú assoluta, piú nitida e mitica: prima fulgore luminoso e immaginoso, poi ardore di affetti, poi intima evocazione, prima grandiosità di spazi infiniti, poi rappresentazione di domestica pace sin nel chiuso delle case fiorentine. E cosí il linguaggio si approfondisce e si svolge coerentemente dai temi piú aperti di solennità sacra dell’inizio a quelli piú affettuosi dell’ardore paterno di Cacciaguida, a quelli mitico-storici della evocazione della Firenze «sobria e pudica» e del grande finale, senza mai perdere l’eco sollecitante e la preparazione dei toni e dei motivi prima acquisiti.

Un’ascesa verso la grande poesia dell’ultima parte, ma in un rapporto di parti inseparabili, nello svolgersi e purificarsi di una generale tensione ispirativa, in cui i piú aperti motivi paradisiaci (luce e musica, progresso del sentimento paradisiaco di Dante, intensificarsi del sorriso di Beatrice, comunicazione dei beati nella mente di Dio) concorrono a costituire la base altissima ed intensa su cui si attua la poesia dell’ultima parte, a elaborare gli elementi di nobilitazione e santificazione della voce di Cacciaguida, il tono epico-religioso e storicamente testimoniale in cui la rappresentazione della Firenze antica può superare le condizioni di un semplice e isolato idillio nostalgico da parte di un laudator temporis acti. Come, ripeto, negli ultimi versi la narrazione della vita di Cacciaguida e della sua morte in battaglia al servizio della fede e dell’imperatore, e la stessa intonazione sacra e cavalleresca, marziale e civile, in cui essa è scandita, approfondiscono l’incanto di pace della Firenze sobria e pudica, viva di affetti dolcissimi e ricca di intimità fin nei rapporti piú semplici e naturali, nella poesia della casa, della culla, delle cose semplici e schiette, ma insieme eroica e santa, capace di combattere fino al sacrificio per i propri sublimi ideali, ben lontana cosí da un mediocre quieto vivere, impegnata in un esercizio alto di virtú supreme, nella scelta fra valore e disvalore, fra carità e avidità egoistica e corrotta, fra l’«amor che drittamente spira», e la «cupidità».

Né si trascuri di osservare come proprio questo fondamentale tema di contrasto, che innerva tutto il canto fino alla contrapposizione finale fra il «mondo fallace / lo cui amor molte anime deturpa» e la «pace» celeste, venga assicurato ed evidenziato robustamente all’inizio della prima parte, costituendo una linea tematica che raccoglie e sorregge in una direzione unitaria la caritatevole benevolenza dei beati, la intima disposizione affettuosa di Cacciaguida, di Beatrice, di Dante nel loro colloquio, e dà allo stesso contrasto tra la Firenze «sobria e pudica», concorde, e la Firenze moderna corrotta e divisa il suo valore di esemplificazione concreta di una verità universale e centrale nella poesia del Paradiso, e di tutto il poema, conferisce un ulteriore rilievo al mito della Firenze antica, la cui pace nasceva per Dante non solo e non tanto da una situazione sociale, economica, politica (il Comune aristocratico dell’epoca prefredericiana non turbato dall’inurbamento dei villici), quanto e piú dall’adesione dei suoi cittadini all’amore dei beni sostanziali, alla cristiana e civile carità.

* * *

Le prime quattro terzine del canto impostano appunto quel tema in un primo movimento grandioso che assicura intorno ad esso, insieme all’impianto già iniziato nel canto precedente della scena e delle sue dimensioni celesti, con la croce luminosa e improvvisamente silenziosa, la coerente tensione della disposizione affettuosa e fervida dei beati, sottolineata dall’interrogazione espansiva della terza terzina che esalta la gratitudine di Dante e lo spirito di carità dei beati «concordi» a sollecitarne le domande e dalla finale assoluta condanna del poeta («sempre», «etternalmente») per la suprema stoltezza di chi si priva di quest’amore infinito per l’avidità di beni frivoli e caduchi. In una prospettiva alta di paradiso in cui un dogma di fede (l’eternità delle pene infernali) è rivissuto originalmente nella sua radice di scelta inequivoca fra valore e disvalore, di tormento infinito per la perdita di un bene infinito a causa di una frivola e miope valutazione mondana, piuttosto che come principio e compimento di giustizia, ed è d’altra parte in relazione a un altro dogma nettamente consolatore: quello che, come rilevò il Donadoni nella sua profonda lettura di questo canto, «ha in sé tanto conforto, della intercessione dei beati».

Benigna volontade in che si liqua

sempre l’amor che drittamente spira,

come cupidità fa ne la iniqua,

silenzio puose a quella dolce lira,

e fece quietar le sante corde

che la destra del cielo allenta e tira.

Come saranno a’ giusti preghi sorde

quelle sustanze che, per darmi voglia

ch’io le pregassi, a tacer fur concorde?

Bene è che sanza termine si doglia

chi, per amor di cosa che non duri

etternalmente, quello amor si spoglia.

Sull’eco di questo primo movimento ascendente, concluso nel fermo suggello dell’ultima esclamazione, che esalta il valore supremo della illimitata carità dei beati, si apre il nuovo movimento, che viene ad accrescere il senso dell’infinito nella scena del canto (spazio infinito e aura celeste notturna che inducono in tutto il canto un senso di pace superiore, di arcana immobilità, e circondano e pervadono la pace evocata della città terrena, la mitica tranquilla giornata delle madri fiorentine) con una apertura di immagine celeste, serena, arcana e notturna e si sviluppa in un lungo, aereo, luminoso paragone che conduce attraverso i suoi termini perfetti, simmetrici e coerenti, in un’unica linea complessa e lucida, fino alla conclusione della discesa di Cacciaguida ai piedi della croce davanti a Dante, e all’incontro affettuoso e nobile, illuminato nel nuovo e breve paragone con l’incontro patetico e solenne di Anchise ed Enea nell’Eliso.

E mentre il primo paragone adempie alla sua centrale funzione lirico-narrativa, esso serve ad arricchire la scena e questa discesa dello spirito di una luce e di un fulgore di «astro» e di «gemma» (luce e fulgore visivo e spirituale, intimo fuoco dell’animo di carità e di paterna letizia) con immagini celesti e visive che riportano nella poesia dantesca echi sollecitanti della poesia classica (Ovidio, Lucano e soprattutto Virgilio), della innografia cristiana e medioevale (dagli inni del De consolatione di Boezio al De gloria Paradisi di Pier Damiano), del puro, gemmeo splendore dei mosaici. Tutti echi essenziali a quel linguaggio visivo-simbolico, epico-sacro del Paradiso, che pur risolve in forme piú liriche e intense anche i riferimenti piú preziosi (la gemma e il nastro, il fuoco che traspare dietro la diafana e diffusa luminosità dell’alabastro) sciogliendo la loro fastosa e ferma opulenza in una luce piú vibrante, in una suggestione spaziale ed intima di eccezionale originalità: l’aggiunta geniale di Dante alla poetica medioevale, e d’altra parte la sua potente assimilazione e utilizzazione originale di suggestioni poetiche, la sua viva sintesi di elementi intimamente scelti dai testi biblico-classico-cristiani richiamati qui come collaborazione diretta all’immagine e come rafforzamento di una dignificazione, di una nobilitazione epico-sacra inerente all’auctoritas generale dei testi e al sollecitante riferimento al significato delle stesse immagini usufruite, nonché alla suggestione di un fondamentale sincretismo classico-religioso. Come è qui il caso dell’incontro non casuale (non è semplice memoria automatica di grande lettore, ma memoria attiva, di grande poeta) di immagini della poesia classica: la poesia del cielo stellato, della contemplazione notturna, elemento sereno-mistico della paganità piú tarda, al segno superiore del pio Virgilio precristiano, immagini e termini degl’inni cristiani medievali, immagini bibliche tanto piú attive perché direttamente riportanti a una tematica simbolica di pace e martirio dei giusti (essenziale in proposito il passo della Sapienza che parla della pace dei giusti dopo una morte che pare di martirio – exterminium – agli stolti e che evoca la loro vita luminosa – «Fulgebunt justi et tamquam scintillae in arundineto discurrent» – che pare alla base di tutto il paragone stelle-beati nel canto precedente).

Quale per li seren tranquilli e puri

discorre ad ora ad or subito foco,

movendo li occhi che stavan sicuri,

e pare stella che tramuti loco,

se non che da la parte ond’e’ s’accende

nulla sen perde, ed esso dura poco;

tale dal corno che ’n destro si stende

a piè di quella croce corse un astro

de la costellazion che lí resplende;

né si partí la gemma dal suo nastro,

ma per la lista radial trascorse,

che parve foco dietro ad alabastro.

Sí pia l’ombra di Anchise si porse,

se fede merta nostra maggior musa,

quando in Eliso del figlio s’accorse.

La discesa di Cacciaguida ha definitivamente schiarito la scena nei suoi termini essenziali (lo sfondo infinito e notturno, la croce silenziosa e luminosa di astri e di gemme delineata fra il braccio «che in destro si stende», la lista radiale e i suoi piedi), e insieme ha determinato (in una integrale rappresentazione lirico-visiva) la situazione intima di Cacciaguida, beato «concorde» con gli altri beati (astro di quella costellazione) che anche nel suo discendere dalla croce non se ne distacca e la percorre lungo i suoi bracci e che, pure nella sua sollecitudine affettuosa paterna (che particolarizza e individua concretamente la «benigna volontade» di tutti i beati), «corre» verso il suo discendente, acceso di un affetto che lo rende piú luminoso degli altri, pure luminosi di una luce piú diffusa e generale («che parve foco dietro ad alabastro»).

Il rapporto affettuoso si precisa e l’ardore di Cacciaguida, l’onda lirica della sua discesa si risolvono e si precisano, nell’ultima terzina, in un incontro piú concreto di figure, in un gesto intenso, il cui significato (la pietas paterna di Cacciaguida per Dante) e la cui inclinazione di atteggiamento («si porse», si offerse, si protese) son tradotti e contenuti in questa poesia potente e ardente, e pur già a suo modo a tratti «sobria e pudica» (come la intonano poi perfettamente le parole tematiche con cui è indicata la Firenze antica), nel paragone con l’incontro di Anchise ed Enea nell’Eliso. E questo paragone richiama in questo canto di alta sintesi degli affetti e degli ideali di Dante, della sua piú intima vita sentimentale, spirituale e poetica, la voce del poeta piú caro, Virgilio («nostra maggior musa»), in una delle sue situazioni piú dolci e solenni, e suggerisce, nel ricordo di quell’incontro, seguíto dalla rivelazione di Anchise ad Enea della sua sorte gloriosa, il valore sacro e profetico dell’incontro di Cacciaguida e Dante, anticipando, con quell’arte di preludio e svolgimento di temi e di coerenti variazioni in cui Dante è maestro supremo, la rivelazione della missione del poeta e ponendola implicitamente sul piano stesso di quella di Enea a cui Anchise, come Cacciaguida a Dante, profetizza il destino glorioso («te tua facta docebo») e che egli, come Cacciaguida Dante, aveva atteso prefigurandosene e accelerando nel desiderio l’arrivo del futuro («sic equidem ducebam animo rebarque futurum / tempora dinumerans»).

Di nuovo la forza di questa parte sembra conclusa in questa clausola perfetta. Ma un nuovo impeto e nuovi elementi si aggiungono: l’ardore di Cacciaguida si traduce nella espressione della sua letizia per l’incontro con Dante, si esalta e insieme si contiene e si nobilita ulteriormente nella invocazione al discendente («O sanguis meus, o superinfusa / gratia Dei sicut tibi cui / bis unquam coeli janua reclusa?») che meglio chiarisce il preciso rapporto dei due personaggi e il valore della eccezionale sorte di Dante, a cui il linguaggio latino e il significativo richiamo di alte espressioni virgiliane («O sanguis meus» dice nel VI dell’Eneide Anchise a Cesare) e di forme del latino ecclesiastico-mistico («o superinfusa gratia Dei», «janua coeli») attribuiscono sempre piú un senso epico-sacro, che non andrà perduto nell’intonazione anche piú dolcemente commossa ed umana di questo canto. E lo stesso latino qui adoperato costituisce una base alta e media, essenziale, non certo per un puro valore di ambientazione storica, di verismo, ma per quella nobilitazione epico-sacra che qui si alimenta nei precisi riferimenti alla «maggior musa», al nobile latino dei testi classici e religiosi, fra il linguaggio esoterico con cui Cacciaguida innalza poi il suo ringraziamento a Dio e quello piú comunicativo (ma pur sempre alto: «non moderna favella», piú arcaico e perciò piú nobilitante) del suo successivo discorso a Dante, che da questo inizio e da quella misteriosa aggiunta manterrà un singolare impulso di nobiltà, di elevatezza, che si ripercuote negli stessi latinismi ed arcaismi piú frequenti in questo canto che altrove.

E si noti, d’altra parte, come l’inizio latino si apra naturalmente fra la sollecitazione del paragone di Anchise ed Enea e l’implicito paragone con S. Paolo, che riprende l’alta esitazione di Dante all’ingresso dell’Inferno («Io non Enea, io non Paulo sono»), paragone qui taciuto, ma da cui pur ritorna nei versi che indicano la profondità esoterica del discorso di Cacciaguida («giunse lo spirito al suo principio cose / ch’io non lo ’ntesi, sí parlò profondo») lo spunto, non ricordato dai commentatori, del testo paolino (Ad Corinthios II, 4-5: «audivit arcana verba quae non licet homini loqui»), come qui nel «gratia Dei» risuona la risposta di Dio a Paolo: «Sufficit tibi gratia mea» (ibid. 9). Giuoco sottile di allusioni e riferimenti tutti coerenti alla volontà dantesca di innalzare il colloquio sul piano delle piú alte vicende storiche e religiose e in relazione all’impianto stesso del suo viaggio oltretomba («intese cose che furon cagione / di sua vittoria e del papale ammanto»):

Cosí quel lume: ond’io m’attesi a lui;

poscia rivolsi a la mia donna il viso,

e quinci e quindi stupefatto fui;

ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso

tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo

de la mia gloria e del mio paradiso.

In questo momento di tensione commossa (che ci riporta direttamente a Dante e a Beatrice ed amplia cosí la base della scena finora tutta concentrata sulla croce e su Cacciaguida, presentando gli altri due personaggi del sacro mistero) Dante è investito dall’ardore dello spirito che si è solo parzialmente rivelato nel «sanguis meus», e, come sempre fa nel Paradiso quando non comprende le profonde impressioni che lo turbano, si rivolge a Beatrice: e questa offre a lui un nuovo motivo di meraviglia e di intima eccitazione. Ché le parole di Cacciaguida hanno operato in lei un ulteriore approfondimento di letizia (il Paradiso è il regno della continua aggiunta di ricchezza interiore) ed i suoi occhi risplendono, ardono di un riso, di una luce dell’anima tale che Dante crede di esser giunto al termine stesso del suo viaggio paradisiaco. Alto momento poetico in cui Dante, mentre assicura la tensione cui il canto è giunto (e si valorizzi anche in tal senso il movimento profondo della seconda terzina che lega i tre versi nel doppio enjambement come in un limpido gorgo mistico-amoroso), riporta in questo canto, che, come ho detto, raccoglie i motivi piú intimi ed essenziali della sua vita di uomo e di poeta, la presenza viva della sua donna e del suo significato per lui, legando persino a questa esperienza paradisiaca i termini del suo amore giovanile, come mostra il chiaro, voluto richiamo negli ultimi due versi di un passo della Vita Nuova: «egli mi parve allora vedere tutti li termini della beatitudine». L’ultima terzina prepara la nuova attenzione di Dante al discorso esoterico dello spirito che «giocondo», letificante nel suo splendore e nel suono della voce, aggiunse a ciò che aveva detto in principio «cose» espresse con tanta profondità che rimasero incomprensibili, non per la volontà («elezion») ma per un ermetismo causato da una reale superiorità del suo pensiero alla capacità di comprensione dei mortali.

Indi, a udire e a veder giocondo,

giunse lo spirto al suo principio cose,

ch’io non lo ’ntesi, sí parlò profondo;

né per elezion mi si nascose,

ma per necessità, ché ’l suo concetto

al segno d’i mortal si soprapuose.

E quando l’arco de l’ardente affetto

fu sí sfogato, che ’l parlar discese

inver’ lo segno del nostro intelletto,

la prima cosa che per me s’intese,

«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,

che nel mio seme se’ tanto cortese!».

L’impeto mistico-affettuoso di Cacciaguida si traduce nella impressione di singolare elevatezza ed ardore che ne riproducono poi le parole di Dante, specie nell’immagine dell’«arco de l’ardente affetto» che cosí bene esprime la tensione estrema dell’ardore di Cacciaguida e sorregge tutto il passo, e introduce il lungo discorso seguente, nelle cui spiegate parole si rinnova l’eco solenne e arcana della parte esoterica che, non compresa razionalmente, ha però portato una nuova aggiunta di misteriosa profondità, di linguaggio sovrumano nel linguaggio e nella voce di Cacciaguida: voce complessa di toni coerenti a cui il nuovo discorso aggiunge, in una disposizione inizialmente pacata, ma poi alla fine di nuovo intensissima di affetto, nuovi elementi di sicura solennità metafisica e immaginosa (la mente di Dio immaginata come «magno volume / du’ non si muta mai bianco né bruno»), di lucida e arcana poesia intellettiva (la poesia del misterioso motivo del fluire del pensiero dei beati nella mente di Dio e del paragone con la sublime e limpida derivazione dei numeri dall’unità). E tutto il discorso, intonato ai moduli alti di un’oratoria sacra e teologica, par contribuire a questa preparazione di mistero divino, è necessario nella sua sicura, solenne articolazione, nella sua spiegazione della situazione poetica di Cacciaguida e nella sua finale richiesta:

E seguí: «Grato e lontano digiuno

tratto leggendo del magno volume

du’ non si muta mai bianco né bruno,

solvuto hai, figlio, dentro a questo lume

in ch’io ti parlo, mercé di colei

ch’a l’alto volo ti vestí le piume.

Tu credi che a me tuo pensier mei

da quel ch’è primo, cosí come raia

da l’un, se si conosce, il cinque e ’l sei;

e però ch’io mi sia e perch’io paia

piú gaudioso a te, non mi domandi,

che alcun altro in questa turba gaia.

Tu credi ’l vero; ché i minori e’ grandi

di questa vita miran ne lo speglio

in che, prima che pensi, il pensier pandi;

ma perché ’l sacro amore in che io veglio

con perpetua vista e che m’asseta

di dolce disiar, s’adempia meglio,

la voce tua, sicura, balda e lieta

suoni la volontà, suoni ’l disio

a che la mia risposta è già decreta!».

Prima una parte che esprime l’impeto affettuoso di Cacciaguida nella lunga attesa (e «grato e lontano digiuno» prepara in forma piú pacata, nella guida di verbi omogenei mistico-realistici, il sacro amor che «m’asseta di dolce desiar» e poi nella risposta di Dante il «far sazio» conclusivo) e riepiloga e assicura ancora una volta la vicenda umana e soprannaturale di Dante entro la volontà di Dio e la mediazione di Beatrice. Poi i due movimenti simmetrici, aperti dal doppio «tu credi», rafforzativi di verità assolute, dominate dal gaudio affettuoso-sacro di Cacciaguida che s’alza sulla base del gaudio concorde dei beati (tutto concorre sempre verso questa dimensione dinamica di concordia e di aggiunta individuale); infine, dopo questo intreccio lucido e sottile, lo slancio finale che, al di sopra di quella verità, pone la bellezza dell’aggiunta della parola concreta, della espressione personale, della richiesta esplicita del mortale che porta alla comunicazione celeste nel pensiero di Dio una integrazione di affetto, appaga meglio il sacro amore del beato, come incarnazione, nel colloquio diretto, di quell’amore, giustifica piú sentimentalmente la risposta «già decreta», già stabilita dalla volontà divina: che è poi come una giustificazione della parola poetica nel regno del Paradiso, che teologicamente apparirebbe superflua se non permanesse, anche nelle condizioni sovrumane dei beati, il sentimento e il bisogno espressivo degli uomini, la loro vocazione di esplicita comunicazione.

In realtà la richiesta di Dante è soprattutto compiutamente espressa nell’ultima terzina del suo discorso, in cui la ripresa dei termini piú appassionati e piú immaginosi del discorso di Cacciaguida è pienamente adeguata, ché nella prima parte è certamente inferiore all’altezza di quello, di cui è mimesi piú faticosa (anche se viva nell’accentuazione del sentimento di attesa e della trepidazione del poeta nel seguire l’avo nel regno alto di un eloquio solenne e mistico), e sembra inferiore a ciò che ci fa sperare la terzina di passaggio, in cui Dante si rivolge a Beatrice ed essa lo incoraggia a parlare con un nuovo lampeggiare di un sorriso, fulmineo come la sua comprensione in un muto colloquio di intenso entusiasmo lirico.

Io mi volsi a Beatrice, e quella udio

pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno

che fece crescer l’ali al voler mio.

Poi cominciai cosí: «L’affetto e ’l senno,

come la prima equalità v’apparse,

d’un peso per ciascun di voi si fenno;

però che ’l sol che v’allumò e arse,

col caldo e con la luce è sí iguali,

che tutte simiglianze sono scarse.

Ma voglia e argomento ne’ mortali,

per la cagion ch’a voi è manifesta,

diversamente son pennuti in ali;

ond’io, che son mortal, mi sento in questa

disagguaglianza, e però non ringrazio

se non col core a la paterna festa.

Ben supplico io a te, vivo topazio,

che questa gioia preziosa ingemmi,

perché mi facci del tuo nome sazio».

L’ultima terzina riprende anche nei termini lessicali la poesia dell’incontro affettuoso, del desiderio di colloquio, dell’ardore e del fulgore di Cacciaguida: anzi la «gemma» diviene il «vivo topazio», e all’amore che «asseta» Cacciaguida, al suo «grato e lontano digiuno» corrisponde il «far sazio» di Dante: espressioni pregnanti e in simpatia di linee di tensione e di simbolismo immaginoso, di linguaggio mistico-realistico.

Questo ultimo movimento tanto piú lirico ed aperto è la base di slancio della risposta di Cacciaguida, che si apre con una prima terzina

(«O fronda mia, in che io compiacemmi

pur aspettando, io fui la tua radice»,

cotal principio, rispondendo, femmi)

in cui l’espansione paterna-affettuosa si realizza e rafforza con una concentrazione piú sintetica (e che media il passaggio alla parte nuova, alle sue forme piú semplici ed alte) nell’immagine robusta dell’albero a precisare la continuità familiare, il rapporto di sangue fra Dante e Cacciaguida, nei suoi termini estremi rilevati all’inizio e alla fine della breve introduzione. E in mezzo a questi accresce impeto contenuto la vibrazione della lunga attesa e del compiacimento per il discendente che viene a realizzare con la sua opera il disegno di Dio e la speranza del trisavolo, intonata dal chiaro riecheggiamento di versetti evangelici (Matteo, III, 17, Marco I, 11 e Luca III, 22) in cui una voce dal cielo dice di Gesú «Hic est filius meus dilectus in quo mihi complacui», ad un arditissimo riferimento religioso che porta al massimo l’interpretazione e la nobilitazione solenne e sacra della eccezionale destinazione di Dante.

* * *

Con questi versi il canto raggiunge il suo tono piú alto e la voce di Cacciaguida acquista la sua forza piú sicura di calma superiore, di storica testimonianza solenne ed intima, paterna e sacra, nelle rappresentazioni di quell’ideale vita familiare e civile, di quel limpido e potentissimo termine dell’aspirazione dantesca che è la Firenze antica, vero Paradiso in terra e terra ideale purificata, e pur viva e resa possibile proprio nella sua rievocazione di realtà sperimentata e vissuta, ricreata viva e intatta dalla voce di Cacciaguida, cittadino di quella città e cittadino della città celeste, unificata negli essenziali elementi di un ordine intimo, di una «benigna volontade», di una carità concorde che si contrappongono naturalmente al disordine, all’odio, alla cupidità egoistica di un mondo corrotto e diviso.

Cosí, dopo una rapida indicazione della continuità della famiglia attraverso la perifrasi che individua Alighiero I (padre di Bellincione, padre di Alighiero II, padre di Dante) e che aggiunge il tema della carità e della pietà familiare nella raccomandazione a Dante di abbreviare il soggiorno purgatoriale del «superbo» Alighiero I

(Poscia mi disse: «Quel da cui si dice

tua cognazione e che cent’anni e piúe

girato ha ’l monte in la prima cornice,

mio figlio fu e tuo bisavol fue:

ben si convien che la lunga fatica

tu li raccorci con l’opere tue»),

la voce di Cacciaguida passa dai ricordi genealogici alla rappresentazione della Firenze antica, in cui la poesia di questo canto trova la sua espressione piú alta, la sua soluzione superiore, tramutando fulgore di visione paradisiaca in forza di limpida, energica evocazione, ardore lirico immaginoso in miti perfetti assoluti e pur vibranti di affetto e d’intima tensione.

Tornano le varie e frequenti espressioni della nostalgia dell’esule per la sua città, le sue acerbe invettive contro il lusso e la corruzione presente, torna l’impeto dell’ardente rimpianto, espresso direttamente o per bocca dei suoi personaggi per un mondo di «valore e cortesia» (Marco Lombardo, Guido del Duca), e riaffiorano i piú teneri movimenti della sua poesia verso le cose semplici e schiette, verso la pace e l’intimità della vita cittadina e familiare. Ma tutto è qui nuovamente fuso in un unico e articolato mito poetico, piú epico-lirico che solamente drammatico o elegiaco-idillico, e nella voce di Cacciaguida nostalgia elegiaca e sdegno polemico perdono le loro punte piú passionali, si trasvalorano in pura evidenza di rappresentazione, in unitaria forza evocativa. Condanna, nostalgia e prepotente aspirazione di Dante ad una terra, ad una civitas che appaghi il suo animo e realizzi concretamente i suoi piú alti ideali di pace virile, di eroica e pura e corale convivenza (secondo quel ritmo progressivo di «vicinanze» concordi e caritatevoli: casa, città, impero, proposti nel IV, iv, 2-3-4 del Convivio), si fondono in una storia poetica distaccata e serena e pur potente ed attiva.

Ché in questa esaltazione di un passato che Cacciaguida rievoca con la forza di un’esperienza e di una testimonianza personale è ben essenziale l’aspirazione (e la fede) di Dante ad un rinnovamento nel futuro, confortata da questa conferma celeste e dalla persuasione della validità eterna di quei valori che avevano avuto espressione nella Firenze antica, dalla certezza di portare in sé di quelli la viva radice, e quindi la possibilità della loro restaurazione di cui la sua poesia era già, piú che profezia, particolare realizzazione. Che importa se quel passato era in gran parte una creazione della sua fantasia, se esso non si sarebbe mai rinnovato in un futuro tanto diverso, se lo stesso atteggiamento politico di Dante era in qualche modo in contrasto con la storia effettiva del suo tempo, e come papato ed impero si allontanavano sempre piú dalla funzione che egli ad essi assegnava, cosí la vita economica, sociale, politica fiorentina, per il suo stesso dinamismo interno e per le generali condizioni italiane, rendeva assurdo il ritorno a quell’equilibrio cittadino e quindi alla pace «sobria e pudica» che era legata ad una situazione particolarissima del primo comune consolare, rotta da una espansione e da un accrescimento di forze sociali ed economiche che quello stesso comune aveva iniziato?

Ciò che qui interessa è il fatto che Dante credeva fortemente in quel passato, aspirava intensamente con tutte le forze dell’animo, e della fantasia, a quel futuro, a quella renovatio (come ben indicò il Croce); e se il rimpianto di un mondo perduto di pace e di concordia cittadina, di «valore e cortesia», di sobrietà e di onestà son comuni a tanti lamenti di esuli di quel tormentato periodo storico (e se ne potrebbe agevolmente raccogliere un’amarissima antologia), la posizione di Dante è ben diversa da quella di questi delusi e vinti della storia che non riuscivano ad appoggiare il loro mesto e spesso querulo rimpianto ad una fede eroica e rinnovatrice, a quel robusto senso del proprio valore e del proprio mondo ideale che, come permise a Dante di interpretare il suo esilio come un «onore» («l’esilio che mi è dato a onor mi tegno» dice nella canzone Tre donne intorno al cor mi son venute) e di considerarlo come la base necessaria della sua missione e della sua opera poetica, cosí in questo canto contribuisce a saldare i suoi sentimenti e i suoi temi personali e poetici, il suo dolore di esule, la sua suprema aspirazione alla pace, la sua condanna del presente inferiore, entro la forza di una fede umana e poetica che dà a questo mito supremo dell’animo ben altra intonazione da quella che avrebbe la romantica esaltazione di un passato per sempre perduto, l’evasione dal brutto presente in un sogno senza speranza o semplicemente nostalgico.

I valori di quel leggendario ideale passato vivono in Dante, la sua fede diviene certezza storica e poetica nella testimonianza di Cacciaguida che ne inserisce la rievocazione e il contrasto con il presente nella propria storia vissuta e fatta assoluta nel suo esemplare significato, dando cosí ai sentimenti stessi di Dante una fermezza e un valore superiore a qualunque elegiaco rimpianto dell’esule, a qualunque vagheggiamento puramente idillico di quella vita lontana che solo nella voce di Cacciaguida, testimone e martire, cittadino di quella Firenze e del Paradiso, può essere evocato epicamente e miticamente nella sua pace «sobria e pudica». Che sono le parole tematiche con cui si apre l’episodio e che rappresentano insieme la caratterizzazione di quella vita di pace e di virtú istintiva e spontanea e il modulo stesso severo e intenso, appassionato e sereno e aristocraticamente semplice del linguaggio del passo, la misura contenuta del suo ritmo, della sua costruzione articolata in forme di classica robustezza, di misurata tensione. E chiudono, con un accordo essenziale in questa prima terzina, una immagine di calma forza e di profonda suggestione, senza la minima dispersione di enfasi o di languore, in un moto cosí intenso di affetto che si traduce in una forma cosí conclusa, nei versi che designano la Firenze ideale di Dante, nella sua «pace», assicurata dalla indicazione della «cerchia antica» di mura in un sentimento di compattezza e sicurezza, di raccolta intimità, di lunga continuità tradizionale. E fra i due versi terminali della terzina una indicazione («ond’ella toglie ancora e terza e nona») apparentemente esplicativa e invece cosí necessaria a far vibrare in questa visione serena l’incontro di un sentimento del tempo, della giornata attiva, uguale e pacifica, scandita dal suono delle ore del campanile della chiesa di Badia presso le antiche mura, e del pungente ricordo di quella vita, indotto nella Firenze moderna che ancora inutilmente prendeva da quel campanile antico la misura delle sue cosí diverse giornate.

Fiorenza dentro da la cerchia antica,

ond’ella toglie ancora e terza e nona,

si stava in pace, sobria e pudica.

Quella rievocazione cosí sintetica, testimoniale e mitica, conteneva in sé gli elementi essenziali di una piú particolareggiata rappresentazione della Firenze antica a contrasto con quella moderna, prima di potersi approfondire in maniera piú diretta come avviene dal v. 112 in poi.

Non avea catenella, non corona,

non gonne contigiate, non cintura

che fosse a veder piú che la persona.

Non faceva, nascendo, ancor paura

la figlia al padre, ché ’l tempo e la dote

non fuggien quinci e quindi la misura.

Non avea case di famiglia vote;

non v’era giunto ancor Sardanapalo

a mostrar ciò che ’n camera si puote.

Non era vinto ancora Montemalo

dal vostro Uccellatoio, che, com’è vinto

nel montar su, cosí sarà nel calo.

Una serie di negazioni a crescendo (e si noti l’estrema sobrietà ed efficacia di mezzi costruttivi volutamente ripetuti), ma nitidamente scandita con un’energia misurata e persuasa, presenta a contrasto la Firenze di un tempo e la Firenze moderna in quadri sempre piú vasti e profondi che vanno dai particolari del vestiario alla diagnosi sicura e severa della corruzione morale e della conseguente decadenza della città.

Prima il quadro del nuovo lusso che sale dai particolari delle collane e dei diademi preziosi, delle gonne fastosamente fregiate e ricamate, a quello – piú decisivo e sottolineato nella sua importanza dall’ampio giro che lo descrive – della cintura cosí ricca da attrarre l’occhio piú della stessa persona che lo porta: dove ben s’intende la radice piú vera della condanna di Dante che non deriva da gretto moralismo o da ascetica rinuncia e mortificazione, ma da un fervido, positivo amore per valori essenziali, per una umanità antiedonistica perché capace appunto di fruire di valori piú schietti e sostanziali, come la bellezza e la dignità della figura umana, non bisognosa di artificio e di ornamenti per esercitare il suo naturale fascino. («Non si può ben manifestare la bellezza di una donna, quando li ornamenti de l’azzimare e de le vestimenta la fanno piú ammirare che essa medesima», Convivio, I, X, 12). Poi il quadro della vita familiare in cui i nuovi costumi e l’avidità e corruzione che vi presiedono giustificano la preoccupazione del paterfamilias obbligato a dar marito a figlie precocemente irrequiete (e qui appare già un colore piú cupo e dalla condanna del lusso si passa ai piú delicati motivi morali), a trovar doti eccessive e rovinose per l’economia familiare come per la compattezza familiare rovinose sono quelle nozze troppo precoci.

E qui, nella persistenza del modulo ritmico e costruttivo negativo che unifica e insieme fa vibrare la diversa crescente intensità dei quadri in esso contenuti, il contrasto fra le due diverse Firenze si approfondisce nell’intimo delle case e la voce si fa piú severa, appoggiandosi all’improvvisa evocazione di un nome (Sardanapalo) che già nella tradizione classica e medievale richiamava immagini turbatrici e indissociabili di lusso e di lussuria. Nelle case «di famiglia vote» (troppo vaste a causa del nuovo fasto e della decadenza delle famiglie dei grandi a cui l’aristocratico Dante guardava, ma anche per le nozze precoci e forse per sempre piú frequenti infrazioni alla legge della fecondità di una società che deve temere le doti e il costo di una famiglia numerosa) Sardanapalo giunge – con un improvviso movimento del verso che innalza quel nome al suo termine, con il suo suono barbarico e opulento e le allusioni che vi erano implicite – a mostrare «ciò che in camera si puote». E non mi par dubbio che la stessa progressione sicura (che non perde mai una battuta nel suo crescendo) dai particolari del vestiario a forme sempre piú gravi di una vita «non» sobria e pudica e il suono cosí scuro e potente della voce (nella intonazione storica e narrativa che ne contiene e conferma l’eco piú intensa), la posizione estrema del «si puote» (che fa pensare nella sua dura semplicità e nella coerenza al modus dicendi dantesco, risoluto e schietto, alla definizione di Semiramide che «libito fe’ licito» in sua legge) e insieme, ripeto, il significato che Sardanapalo aveva nella tradizione classico-medievale, escludono risolutamente le interpretazioni di camera come «camera del tesoro» o del «si puote» solo come estremo fasto nella ornamentazione e arredamento delle stanze della casa. Ben diversamente ne verrebbe attutita la progressione delle terzine che si chiude, dopo questo quadro estremo della corruzione penetrata (da lusso a lussuria) sin nella camera nuziale sacra all’amore casto e fecondo, all’allevamento dei figli, alle opere pie, domestiche delle matrone, con la visione grandiosa del doppio panorama di Roma e Firenze (vista da Monte Mario la prima, dal Monte Uccellatoio la seconda) nella doppia prospettiva di grandezza e decadenza riassunta nella linea schematica del movimento a ripida parabola («nel montar su, nel calo») che lascia nella fantasia una desolata immagine di rovine.

Su quell’eco di una vicenda storica cosí cruda e assoluta, si inizia la seconda parte del passo in cui la rappresentazione di Firenze antica si fa piú diretta nella nitida ed energica presentazione di figure e, se non si perde l’essenziale riferimento alla corrotta Firenze moderna (con l’eco corroborante del tema di contrasto su cui il canto si è aperto), questa riappare a tratti e per allusioni meno immediate come in un rapporto capovolto di intensità (prima e in primo piano il passato) e solo dopo la prima presentazione dei cittadini antichi, iniziando la rappresentazione della vita serena e sicura delle antiche donne fiorentine, riaffiora in un breve sospiro («Oh fortunate!») che avvia e tende la doppia e unitaria immagine dell’antica sicurezza e della moderna incertezza della sepoltura e del talamo, per riapparire direttamente solo alla conclusione, quando il contrasto fra quelle due umanità fra loro incompatibili squilla deciso in un movimento audacissimo di contrasto di suono e di immagini nella contrapposizione dei rappresentanti della moderna corruzione e delle alte figure di antichi personaggi della virtus romana.

Costruzione possente di cui si noti almeno l’efficacia estrema dei moduli sintattici prima piú decisamente simmetrici nelle impostazioni negative delle terzine precedenti, ora disposti con maggior varietà in questa linea piú mossa e pure esemplarmente chiara ed energica, che traduce un movimento poetico ancora piú intimo e ricco, piú profondamente evocativo e mitico. Due terzine si aprono con la presentazione diretta in un essenziale movimento dei cittadini antichi (con un lieve spostamento di costruzione nel rapporto delle loro figure e del «vidi» testimoniale che le sorregge e potenzia); una si apre nel sospiro «Oh fortunate» e si svolge con un rapido intreccio di affermazioni e negazioni; due, quelle che delineano il quadro della pace domestica, ritornano all’impostazione simmetrica («L’una», «l’altra»), ma la svolgono senza interruzioni di linea in una rappresentazione piú lenta ed assorta di atteggiamenti e di moti intimi che si sciolgono nel canto dolcissimo della nenia e del favoleggiare; l’ultima conclude con un movimento di contrappunto essenziale, con l’andamento quasi di un concitato e severo «scherzo» musicale, e conferma nell’ultimo verso, nella figura di Cincinnato e Corniglia, la saldezza maestosa delle prime terzine.

Bellincion Berti vid’io andar cinto

di cuoio e d’osso e venir da lo specchio

la donna sua sanza ’l viso dipinto;

e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio

essere contenti a la pelle scoperta

e le sue donne al fuso e al pennecchio.

Dallo sfondo desolato della futura rovina di Firenze si leva anzitutto nella voce piú profonda e commossa di Cacciaguida (nella misura la tensione) una piú diretta rappresentazione della Firenze antica nelle figure dei suoi cittadini, figure semplici e grandiose, vive e favolose, aristocratiche e popolari come l’arte suprema che le costruisce, rappresentate dalla gigantesca coppia di Bellincion Berti e della sua donna portata in un primo piano di eccezionale potenza, rilevata in tutta la sua maestosa naturalezza dalla posizione testimoniale e storica del «vid’io» (richiamo non casuale del «vidi» tematico del «nobile castello» del limbo, ma privo del commento «che nel vederli in me stesso m’esalto» che qui è assorbito nel fervore fermo e sobrio di Cacciaguida, compagno contemporaneo di quelle creature grandiose). Mentre la determinazione della cintura di cuoio e d’osso non serve solo a mettere in evidenza questa poesia delle cose semplici ed essenziali, adatte alla loro funzione, non ornamentali, frivole, e superflue, su cui la voce del cantore epico insiste, ma rileva l’erezione del busto virile della potente figura in movimento, cosí come la mossa con cui la «donna» viene sulla scena è suggerita dal piano piú arretrato dello «specchio» da cui essa viene «sanza il viso dipinto», semplice e schietta e pur civile nella cura sobria della propria bellezza, rappresentante di una vita di naturale gentilezza e delle virtú che occupano il cuore di Dante esule («Drittura, larghezza e temperanza»), come i capostipiti dei Nerli e dei Vecchietti contenti del proprio vestito di pelle sfoderata, come le loro donne paghe del loro lavoro domestico, degli strumenti essenziali con cui filano esse stesse la lana che copre e difende i loro corpi e quelli dei loro figli.

E proprio questo accenno alla vita familiare, ai penetrali della casa dove le donne svolgono la loro giornata placida e attiva, conduce al centro piú intimo e delicato di questa rappresentazione in cui, dopo l’esclamazione commossa che esalta la fortuna di quelle donne, il quadro della pace domestica è realizzato compiutamente nei suoi motivi essenziali e sullo sfondo rapidamente richiamato e allontanato di una realtà presente cosí diversa, nella terzina centrale:

Oh fortunate! ciascuna era certa

de la sua sepultura, e ancor nulla

era per Francia nel letto diserta.

Sicurezza della tomba e dell’amore coniugale, senso consolatore di un destino senza incertezze e pericolose avventure, di una continuità della vita e della morte nella patria e nella casa, nella sacra consuetudine degli affetti e sicurezza senza eccezioni, che rinsalda l’impressione di una società concorde, corale, lieta della sua sorte generale («nulla», «ciascuna»), piena di carità per il destino di ognuno dei suoi componenti.

Il Tommaseo esitava di fronte alla semplicità spregiudicata di quel «letto» coniugale, ma quell’esitazione era la prova del suo moralismo e della sua turbata sensualità perché in questa poesia «sobria e pudica», cosí schietta e intensamente seria, quel letto coniugale (e nell’immagine della donna «nel letto diserta» par risuonare in questa poesia mitica e classica l’eco della Penelope privata del «debito amore» dalla lontananza dell’avventuroso Ulisse) è essenziale termine di sicurezza e di continuità della vita familiare, come la sepoltura e la culla dei versi seguenti. Ed esso risponde alle case di famiglia vote, alla camera dissacrata dalla lussuria di Sardanapalo, si colloca coerentemente nella potente mitizzazione di cose e oggetti essenziali, nella poesia degli affetti istintivi e costitutivi della civiltà che Dante qui cosí profondamente celebra. Ma nelle terzine seguenti anche ogni accenno al presente è scomparso, e il tema della pace patriarcale e domestica si svolge in un mito purissimo, in un quadro di classica-arcaica perfezione, in cui la voce di Cacciaguida mitizza tutto ciò che l’animo di Dante sentiva come piú intimo e poetico nella vita degli affetti familiari e civili. Le donne sono figure mitiche e solenni, pacate e perfette, la filatrice ha la maestà di una parca e la schietta vitalità e la potenza di una figura giottesca, e la nenia sulla culla e le parole sommesse della matrona che fila fra le sue ancelle, favoleggiando delle antiche origini di Firenze e dei miti romani e troiani, si compongono in un unico canto di pace e di intimità sacra ed affabile entro l’atmosfera notturna e domestica, nello svolgersi quieto delle ore in una dimensione di vita tranquilla e poetica, che attraverso le parole della leggenda fiorentina mantiene pur sempre il suo riferimento alle proprie condizioni eroiche:

L’una vegghiava a studio de la culla

e, consolando, usava l’idioma

che prima i padri e le madri trastulla;

l’altra, traendo a la rocca la chioma,

favoleggiava con la sua famiglia

d’i Troiani, di Fiesole e di Roma.

Un unico movimento di semplice superiore dolcezza e nobiltà si svolge nella rappresentazione delle due figure femminili, distinte nei loro atti e nelle loro pie occupazioni, ma unificate nella stessa atmosfera di mito e di pace, di costante continuità del tempo favoloso ed intimo, sottolineata dall’impiego replicato dell’imperfetto e del gerundio, in questa serena dimensione di un’immobile ora poetica, nella concorrenza e nella finale fusione della loro nenia e del loro favoleggiare, che si prolungano, senza eccesso, in una eco musicale e fantastica avviata dalla stessa disposizione pausata delle parole dell’ultimo verso.

Su quella eco, in quell’atmosfera di quiete e di mitica pace suprema, ritorna ancora, a concludere il passo, il contrasto con il presente, imperniato, con un movimento quasi estroso e dissonante, sull’offerta della parola «maraviglia», che cosí bene realizza, a doppio effetto, lo stupore (cosí coerente ad un rapporto di sempre piú sostanziale distanza e diversità) di quegli antichi cittadini di fronte al «miracolo» inaspettato di rappresentanti di una umanità frivola, corrotta e cupida di beni inferiori, e lo stupore dei contemporanei di Dante di fronte a quello delle figure della virtú romana nel suo aspetto piú patriarcale e cittadino, a cui cosí quella dei fiorentini antichi viene assimilata, con un ultimo tocco di nobilitazione ben coerente alla stessa materia fantastica di cui si alimenta il classico favoleggiare della matrona:

Saria tenuta allor tal maraviglia

una Cianghella, un Lapo Salterello,

qual ora saria Cincinnato e Corniglia.

* * *

Da questa rievocazione della sua città Cacciaguida ritorna alla propria storia (ben diversa e poeticamente necessaria da una semplice aggiunta di chiarimento anagrafico-araldico), che si svolge in una sequenza di terzine di nuda e virile bellezza, di ritmo sempre piú serrato e storico, e completa questa pagina di grande poesia precisando, nella sua vicenda familiare e personale, gli elementi piú direttamente eroici e religiosi di quella civiltà dalle cui condizioni derivano spontaneamente (non l’individuo eccezionale, ma l’eroe di una civiltà compatta e corale) appunto gli impegni e gli atti della sua storia, svolta con una intonazione piú scandita, marziale, che incarna l’epicità e la sacralità di tutto il canto in forme piú esplicitamente cavalleresche e guerresche.

Quella umanità non esauriva infatti la sua forza in una vita civile, concorde, in una vita familiare, nell’attuazione delle sue virtú e della sua carità; ma la impegnava in un superiore esercizio di valori politici e religiosi di carattere universale, nel culto spontaneo e attivo della sua fede, pronta a riconoscere concretamente fino al sacrificio gli ideali che sostenevano la sua pace e legavano la città ai grandi princípi medievali e danteschi dell’impero e della religione.

Cacciaguida diviene cosí sempre meglio l’eroe sobrio e consapevole di un’alta concezione di vita, il testimone-martire della Firenze antica (non solo il rievocatore della sua grandezza), e come la sua vita e la sua morte in battaglia contro gli infedeli sono l’affermazione concreta delle ragioni profonde di quella pace, tanto superiore qui ad ogni sogno nostalgico-idillico, cosí la narrazione della sua vita e della sua morte è poeticamente il completamento essenziale di questo grande episodio poetico e di tutto il canto.

Prima le qualità piú dolci e consolatrici della antica vita cittadina tornano ancora nella voce affettuosa che le unifica nel desiderio intenso (intensità precisata dalla doppia arcatura, che, nel centro della nuova terzina, sorregge il rilievo replicato dei quattro qualificativi aperti dall’intensificante «cosí»: e le parole sono essenziali e semplici e insieme ardentemente affettuose a indicare quello che nel Convivio è piú volte chiamata «la cittade del bene vivere»), le unifica nel ricordo della sua nascita cristiana, del sacro dolore del parto, anch’esso atteggiato ai modi essenziali di questa poesia energica e severa, e pure superiormente delicata ed intima, a questa santificazione di tutti gli atti fondamentali della vita umana, in questa dimensione sicura di una civilità spontanea, vitale ed epica:

A cosí riposato, a cosí bello

viver di cittadini, a cosí fida

cittadinanza, a cosí dolce ostello,

Maria mi diè, chiamata in alte grida;

e ne l’antico vostro Batisteo

insieme fui cristiano e Cacciaguida.

L’impegno del cristiano nel battesimo (e in quell’antico Battistero che è il termine piú caro all’amore fiorentino di Dante) dà un senso solenne alla vocazione del cittadino, alle sue relazioni di sangue, alla sua funzione di capostipite della famiglia di Dante, il quale ben si ricollega con la sua stessa alta missione alla nobiltà di quelle origini civili, eroiche e cristiane, santificate dalla vita e dalla morte di Cacciaguida. Vita e morte che il poeta dispone dopo la rapida, energica declinazione della parentela

(Moronto fu mio frate ed Eliseo:

mia donna venne a me di val di Pado;

e quindi il sopranome tuo si feo)

nella serie finale di tre terzine di forte ritmo epico-storico, sottolineato dalla stessa netta impostazione degli inizi, dalla recisa compiutezza dei tempi storici e dalla fermezza della voce che nel narrare si fa piú assoluta e scandita a mano a mano che l’abbandono del «dolce ostello» precisa il suo alto significato nella investitura di Cacciaguida come cavaliere da parte dell’imperatore a causa della sua virtú di cittadino, nella sua partecipazione alla seconda crociata (come certamente comunque Dante pensava e credeva, nella storia ideale poetica che qui soprattutto ci interessa) e nella sua morte in battaglia contro i musulmani:

Poi seguitai lo ’mperador Currado;

ed el mi cinse de la sua milizia,

tanto per bene ovrar li venni in grado.

Dietro li andai incontro a la nequizia

di quella legge il cui popolo usurpa,

per colpa d’i pastor, vostra giustizia.

Quivi fu’ io da quella gente turpa

disviluppato dal mondo fallace,

lo cui amor molt’anime deturpa,

e venni dal martiro a questa pace.

Successione potente di atti fondamentali e solenni, sviluppo di una marcia cavalleresca e sacra, che chiude con tanto vigore tutto l’episodio con un crescendo epico e rasserenato, ribadisce l’accordo sempre piú intero fra la figura di Cacciaguida e il complesso ideale dantesco (a cui non manca l’accenno, tanto piú severo quanto piú rapido e assoluto, alla colpa dei pastori ecclesiastici che all’impresa di Terrasanta preferiscono la lotta con gli imperatori per il potere politico) e conferma, negli ultimi altissimi versi, l’ispirazione eroico-religiosa del canto, il contrasto tematico tra il «mondo fallace» e «questa pace», fra l’«amor che drittamente spira» e l’amore dei falsi beni che «molt’anime deturpa», la necessità del «martiro» che giustifica la pace terrena e acquista la pace celeste.

Le due parole supreme di questa poesia («martiro», «pace») si staccano nella possente rappresentazione di quella estrema liberazione, «disviluppata» da tutto ciò che è disvalore, e si dispongono in una linea di tensione fortissima e ferma nel suo movimento rettilineo, e nudo come un’epigrafe, fino al verso isolato e perentorio in cui la marcia guerresca, che ha condotto Cacciaguida dal dolce ostello e dalla investitura cavalleresca alla battaglia e alla morte in Terrasanta, si conclude nel suo ideale compimento della ascesa in cielo.

E non a caso in questi ultimi versi Dante richiama e ripete parole già adoperate nel decimo del Paradiso per definire poeticamente il martirio e l’ascesa in cielo dell’«anima santa» di Severino Boezio (e il «fallace» è tipica parola boeziana):

Per vedere ogne ben dentro vi gode

l’anima santa che ’l mondo fallace

fa manifesto a chi di lei ben ode:

lo corpo ond’ella fu cacciata giace

giuso in Cieldauro ed essa da martiro

e da essilio venne a questa pace.

Che era un modo di assimilare Cacciaguida all’«anima santa» del maestro della consolazione filosofica (cosí presente alla meditazione di Dante che, fra le altre citazioni, ricorda, nel Monarchia, il sospiro di Boezio alla unificazione di città terrena e celeste nello spirito dell’amore e della concordia: «Hanc rationem suspirabat Boetius dicens: o felix hominum genus – si vestros animos amor, – quo celum regitur, regat»), di rinforzare, con quell’eco e con il richiamo del sapiente e del martire di un’alta concezione di vita, l’assolutezza di quelle supreme parole, e insieme di accentuare nel diverso ritmo di quel movimento di liberazione e di ascesa (il primo piú sinuoso e lento, ricco di suoni e di pause, il secondo piú serrato e staccato) la singolare energia virile e marziale, la sobrietà estrema della storia di Cacciaguida, di confermare il modulo poetico e ritmico di questa poesia nella sua alta conclusione paradisiaca. «Questa pace» è ben la pace del cielo di Marte, la mèta e la condizione dell’«amor che drittamente spira», svolto in carità civile e in eroismo, «questa pace» è l’allusione superiore, la nota paradisiaca della pace in cui «si stava» Firenze «sobria e pudica»: questa come quella giustificata e confermata con il «martiro», questa come quella epica e sacra e pure vibrante dell’eco dolcissima, del canto e del favoleggiare delle madri sulla culla, in un cerchio umano-divino, che forse mai come qui Dante chiuse con tanto assoluta perfezione.